Muti, Recondita Armonia e l'educazione alla musica: qualche accordo discorde
Ho acquistato e iniziato e a leggere “Recondita Armonia” di Riccardo Muti con trasporto: nutro per il maestro stima e ammirazione per le doti artistiche e comunicative pari alla mia ultraquarantennale passione per la pedagogia e didattica musicale.
Sono fermo a fine pagina 19, però: non posso non condividere alcune puntualizzazioni urgenti.
Se, infatti, il pensiero del Maestro mi risulta assolutamente condivisibile, in particolare dal punto di pagina 16 dove si dice che la musica “...soprattutto ci educa” e si richiama alla battaglia per “l’insegnamento della musica, del cantare insieme”, trovo che le successive enunciazioni rischino di portare all’effetto contario agli intenti espressi, anche per la presenza di alcune lacune di riferimento pedagogico e didattico che possono portare a travisare l’obiettivo.
Prima di tutto: sarei allibito se la didattica di base della musica, etichettata da Muti “volonterosa ma fondamentalmente sbagliata” perché basata sulla “imposizione del solfeggio” fosse veramente tale: Muti dovrebbe aver letto Delfrati per capire che i docenti di tal fatta dovrebbero essere, nella scuola e nel relativo curricolo scolastico più volte normato e ribadito dall’inizio degli anni Ottanta in svariate Indicazioni Nazionali ministeriali, mosche bianche.
“Per amare la musica non è necessario saperla suonare”. Comprendo, il concetto ci può stare, anche se dai Programmi ministeriali del 1979 nella Scuola italiana si è convinti che un far musica non solo vocale sia fondamentale. Non voglio credere che il Maestro cada così semplicisticamente nel tranello che riguarda il “piffero” (flauto dolce o diritto, in organologia…): può risultare ancora mal insegnato in molte aule, d’accordo, ma viene anche proposto da decenni in orchestre di classe attente al suono e all’insieme più che dignitoso (chi scrive si è innamorato alla didattica a partire da un’esperienza tale, preadolescente, nel lontanissimo 1975!). “Quella non è musica”, siamo d’accordo, tanto quanto il canto corale mal praticato; ritengo però che generalizzare rischi di divulgare un’idea di mancanza totale di educazione al suono alla musica nel panorama didattico nazionale che purtoppo si sta diffondendo sempre più fra nell’opinione pubblica e non è assolutamente tale. Semmai, mi sarei aspettato da Muti una forte sottolineatura riguardo al “metodo”, sì, ma anche e molto più alla formazione iniziale e aggiornamento in itinere dei docenti, sicuramente ancora carente anche se non inesistente (la mia ripetuta esperienza di Tutor coordinatore di Tirocinio in corsi abilitanti presso Conservatori e facoltà accademiche di Musicologia possono testimoniarlo).
Relativamente all’ascolto, concordo sulla fascinazione relativa, sull’urgenza di “educare i ragazzi, i bambini e le bambine, a giocare con i suoni fin da piccoli” (le recenti metodologie ribadiscono fin da piccolissimi, se non ante nascita!), ma questo “accompagnarli, aiutarli a muoversi consapevolmente nella magica foresta dei suoni” e innamorarsi passa attraverso un curricolo che va spiegato, insegnato agli insegnanti in modo sistematico, sostenuto con sussidi e momenti formativi continuativi. Questo, andrebbe detto con forza.
Quanto alla metafora dell’orchestra che riguarda la “importanza didattica della musica per formare un buon cittadino”, niente di più vero: piuttosto – e siamo a pagina 18 – avrei ribadito l’importanza di insegnare ad ascoltarla, prima ancora di insegnare una storia della musica che può rischiare di divenire apprendimento sterile di nozioni o informazioni slegate da ogni contesto, se non adeguatamente correlata al fruire la musica in quanto tale (magari, quanto più possibile, dal vivo!).
La situazione del curricolo scolstico non è sicuramente migliorata, anzi è peggiorata, se si fa riferimento alla Scuola Secondaria di II grado, ma tutto ciò va argomentato dettagliatamente, anche in un libro divulgativo come Recondita Armonia. Sulla apertura di “opportunità di impiego” per i diplomati al Conservatorio, ne ho conosciuti di ignari o sprezzanti di ogni preparazione pedagogica adeguata, che vivevano l’insegnamento come ripiego rivelatosi disastroso e perfino controproducente rispetto al fine di coinvolgere nell’ascolto, motivare, far innamorare, far comprendere e far divenire consapevoli gli allievi loro assegnati.
Voglio credere che una figura eminente come quella di Riccardo Muti, pur nelle comprensibilmente brevi righe di un incipit, non sia volontariamente caduta nella trappola di giudicare distrattamente una realtà come quella della Pedagogia della Musica e della didattica musicale nel curricolo scolastico nazionale, che ha ancora molto da fare, che sta forse subendo negli anni più recenti una sorta di pernicioso riflusso, ma che non è certo ferma nel suo complesso a metodi e modi che risalgono almeno a mezzo secolo fa. Parallelamente alla sua eminente carriera artistica, grazie al cielo, c’è stata anche quella di maestri come Carlo Delfrati, Gino Stefani, Boris Porena, Mario Piatti, Maurizio Spaccazzocchi.
Ora giro pagina e continuo la lettura. Fiducioso che, a sessant’anni suonati, troverò molto ancora da imparare.
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