domenica 23 luglio 2023

Speranze, attese e disillusioni dei musicisti millennials. Una risposta

Il  Post di Silvia Concas in rete mi tocca. Ecco una risposta.


Cara Silvia,

sai che ti leggo sempre con interesse: ho quindi apprezzato anche questa tua metafora del costruire. Che ben esprime il tuo sentire ma rispecchia un problema sociologico della professione musicale di quest’ultimo (primo?) quarto di secolo. Ti risponde – mi conosci – un simpatico sessantaduenne che a far data dal prossimo 1 settembre sarà ufficialmente pensionato: mgari io non rientro nella casistica che tu hai citato, ma ecco che viene a galla il problema, per continuare la metafora, sul tipo di casa, casetta, villa presidenziale che ciascuno di noi ha costruito a suo pro e/o a detrimento altrui.

La mia generazione vi consegna una società più complessa, è vero. E’ altrettanto vero che il modello sociale e professionale cui siete stati cresciuti, soprattutto in ambito musicale, è diverso dal mio in una forma che io considero regressiva, revanscista in senso lato.


Mi devi qui una non breve premessa storica. Molti come me, figli spirituali di Carlo Delfrati o Gino Stefani, hanno dedicato la parte fondante della propria attività professionale musicale all’ambito divulgativo, insegnando ma anche coltivando una possibilità di diffusione capillare del sapere e della cultura che fosse “per tutti” a vari gradi, portata nei territori, vivendo un quotidiano che non era in quanto tale di minor livello o svilente, anzi che si poneva l’obiettivo di “alzare il livello” in modo qualificato, diffusivo, alternativo se non quanto meno complementare alla cultura di massa semplicistica dei media e dei poteri forti.

Ho completato gli studi e iniziato a insegnare in un’epoca in cui i Conservatori erano di meno, si partiva dalla provincia a fare gli esami da privatista, aggiornandosi furiosamente tramite riviste e corsi estivi SIEM, mentre sul territorio c’erano ancora retaggi tardo ottocenteschi con le bande che iniziavano gli studi con sei mesi di solfeggio a suon di Bona, le insegnanti di pianoforte di stampo ottocentesco il cui sillabo era Beyer-TartinadiBurro-LacdeCome, la convinzione che se avevi fatto Teoria e Solfeggio eri qualcuno e potevi insegnare. Chi della mia generazione ha voluto, mediando studi tradizionali e caccia grossa all’aggiornamento, si è fatto testimone sul territorio di un cambiamento importante: oggi la didattica pubblica e libera non è più la stessa, si sono diffuse metodologie innovative, si sono organizzati cicli di concerti decentrati anche nei centri minori dando opportunità a molti di far musica. Se faccio un bilancio della mia attività professionale fin qui, non mi posso dire insoddisfatto: ho insegnato, ho organizzato concerti, ho suonato e fatto coralità con dignità, ho divulgato parlando e scrivendo di musica. Come me, mille altri hanno avuto la possibilità di farlo, nella consapevolezza che la professionalità avrebbe dato frutto se spesa a livello diffusivo, non verticale ma piramidale: portare centomila bambini all’opera per tener viva l’opera, organizzare concerti a scuola per creare un potenziale pubblico del futuro.

Certo, andava parallelamente riformato in modo istituzionale il sistema di formazione. E qui viene quella che io chiamo deriva regressiva.

A fine secolo scorso, quest’ideale piramidale e sociale - peraltro non in crisi ma soggetto a quelle stanchezze che ogni ciclo subisce – ha incontrato la svolta individualistica della società sempre più liquida di inizio nuovo millennio. Che, in ambito musicale, ha significato far rientrare dalla finestra dei Conservatori (oh, quale nome più adatto! Conservare, parrucconare…), se mai ne fosse mai uscita, la mentalità del “questo è il luogo delle eccellenze/qui si diventa grandi concertisti/tu sarai un grande artista” dove la coltivazione dell’ego obeso andava di pari passo con una sciagurata ipertrofia nel numero del Conservatori stessi e dei relativi potenziali grandi artisti diplomati – pardon, laureati – in costante spregio della cura della base della piramide, che fosse destinata alla crescita di potenziali nuove leve di artisti ma che, massimamente, fosse destinata alla formazione di divulgatori di indiscussa professionalità che portassero laboriosamente e dignitosamente in modo diffuso la cultura musicale a tutti. Perchè il buon professionista musicista del nuovo millennio in Europa non è il singolo che per forza vince il concorso in una delle ahimè sempre meno orchestre o per forza canta alla Scala mentre il pubblico viene ingozzato di pseudo musica sempre più basica e “lo spazio straripi di musica a tutto volume che esplode da un vibrante apparecchio uccidi-silenzio” (Calvino, 1979), ma è l’attivo nodo di una rete che, degnandosi di operare anche dalla base della piramide, si attiva per vivificare le maglie in modo sempre più stretto e costante.

Potrai dire che non è facile, lo so. Ti potrei dire che non era facile nemmeno quarant’anni fa e posso riconoscere che ripartire, oggi, può sembrare altrettanto se non più complesso (lo vedo come genitore). Anche se, dal mio punto di vista, la sola ricchezza di sistemi tecnologici e di comunicazione a supporto mi fa impallidire, in confronto. Mi potrai dire, con Gaber, che “La mia generazione ha perso”: però, fino a un certo punto, credo di poter dire che il suo pezzetto lo abbia fatto. Tocca a voi oggi rifare la rivoluzione, in tempi e modi necessariamente diversi. Con l’inizio di settembre, a sessantadue anni d’età, io passo il testimone, in ambito scolastico. Magari, qualche sessantenne in pensione che dà una mano a rafforzare le mura di casa tua, con la sua esperienza, lo trovi ancora. Ti dedico il primo brano dell’album di Gaber che ti ho citato, s’intitola “Si può”.

Con affetto.



domenica 23 aprile 2023

Lo Spazio nella Musica al Fuorisalone

 Alla Design Week di Milano Haute Material e Gerardo Monizza hanno proposto di accompagnare la scoperta del mondo della percezione in una interazione con lo spazio, la materia e le sue forme attraverso diversi punti di vista. Compresa la musica, affidando a me lo speech conclusivo di sabato 22 aprile 2023 nella suggestiva piazza di Torre Gorani in pieno centro a Milano, dentro il Design District 5VIE. 



Titolo: "Lo spazio nella musica". Perchè no? Anche se il suono è il più fragile dei fenomeni fisici che toccano i nostri sensi, con i suoi limiti di tempo e - appunto - spazio, la creatività da questi limiti scatenata nella storia della musica meritava di essere ricordata. 




Paesaggio sonoro dell'esperienza quotidiana, luoghi della musica e scelte spaziali, organologia e materiali, repertori da Ambrogio ai Gabrieli, Vivaldi, Wagner fino a Berio/Maderna/Stockhausen/Varèse e alla installazioni contemporanee sono stati i temi divulgati. Con un conclusivo augurio - nella Giornata della Terra - rivolto a tutti per tornare a considerare un proprio soundscape, togliersi appena possibile dal vincolo della tecnologia e reimmergersi in un sano spazio naturale di soundwalking!



mercoledì 5 dicembre 2018

Un Elisir per un'educazione emozionale

Ero rimasto a parlare di suono ed emozione... 
Quando, quindici anni fa, il progetto di avvio alla conoscenza del teatro musicale per la fascia d’età 6-13 Opera domani di AsLiCo propose come titolo dell’anno Elisir d’amore di Donizetti, ebbi l’occasione di parlare dalle pagine della guida didattica dell’importanza di renderci consapevoli del rapporto che lega suono ed emozione, dell’utilità di esercitarci a riconoscere le espressioni emotive della musica, nell’opera lirica e non solo. Torno sulle mie orme nella dispensa 2019, da un punto di vista simile ma nuovo.
I ragazzi delle medie di allora si sono fatti grandi, sono ormai adulti… Nel frattempo il mondo è cambiato non poco. E'  venuuto il tempo dei millennials, ragazzi della generazione digitale totale, connessi sempre e ovunque. Bambini e, ancor più, preadolescenti dei quali, sempre più spesso, si parla come di una generazione iper o anaffettiva: consapevole poco o nulla delle proprie emozioni, ancor meno capace di definirle, concettualizzarle nelle loro diverse sfumature, anche solo rapportate alla loro età. Con, di contro, una manifestazione di emozionalità sempre più estrema, verso gli estremi etichettati come iper-attivismo o a-patia.
E noi qui, ancora una volta, a chiederci se parlare di suono ed emozione sia indispensabile, necessario, attuale. Sì, con bisogni in parte uguali, in parte diversi e ampliati.
Riflessioni ineludibili su suono, musica; musica che esprime; potere persuasivo della musica; consapevolezza della funzione comunicativa della musica; descrizioni e relative correlazioni stanno alla base del moderno meccanismo della significazione musicale, quindi della comprensione (ascolto, ricezione) ed espressione (produzione, emissione) verso la consapevolezza che c’è un’espressività semantica del suono nella parola (prosodia), nel canto, nella musica strumentale, rapporto sono state compiute nell'ultimo quarto del Novecento, a partire da Fernando Dogana1 a Luca Marconi2 a Daniel J. Levitin3. Percorsi formativi costruiti su un approccio semiologico, cui è andata sovrapponendosi, con il nuovo millennio, un’emergenza di tipo emozionale.
L’atteggiamento socio-culturale di questi anni, con la sua tendenza sempre maggiore a proteggere il bambino dalle frustrazioni, è andato tragicamente confermando gli studi di Daniel Goleman di fine anni '90 che preconizzavano il rischio di compromissione delle capacità intellettuali e di apprendimento - su intelligenze anche dal Qi alto - in caso di scarse capacità di controllo sulla vita emotiva.4
Se è vero che una delle componenti fondamentali dell’Intelligenza Emotiva è l’accurata comprensione delle emozioni verso quella “alfabetizzazione emozionale” che passa attraverso l’identificare e dare un nome alle emozioni perché, come emerso in uno studio dell’UCLA con l’FMRI, “impegnare il proprio cervello in una attività “razionale” come il dare un nome a qualcosa (in questo caso le emozioni provate) riduce la forza e l’impero della reazione emozionale (nell’amigdala, la parte del cervello responsabile delle reazioni primordiali)5 , ci serve che la musica sia strumento quotidiano di una didattica delle emozioni, proposta e vissuta a scuola non come “materia dell’obbligo” ma come abitudine connaturata alla vita nell’essere con-sapevole delle proprie emozioni.
I videogiochi, i social, i touch-screen e le tecnologie digitali più in generale impegnano l’attenzione e il coinvolgimento psicofisico delle nuove generazioni per un tempo davvero molto ampio della giornata, con costanza giorno dopo giorno. I nostri studenti attraverso la vista si nutrono di una narrazione che, se da un lato esalta lo scontro finalizzato all’affermazione del proprio sé, dall’altro organizza la moltitudine delle loro solitudini”.6

Riconoscere è il primo step: passa attraverso l’ascolto e il fare. Mentre Opera Education torna, tre lustri dopo, a proporre a migliaia di bambini e ragazzi Elisir d’amore di Donizetti, diventa ancor più fondamentale riconoscere le espressioni emotive della musica come tappa nel quotidiano della necessità di costruire con i bambini e rafforzare nei preadolescenti quell’alfabeto emozionale che sta alla base delle capacità interpersonali essenziali. 
“Mente e cuore hanno bisogno l’una dell’altro. Oggi è proprio la neuroscienza che sostiene la necessità di prendere molto seriemente le emozioni”.7 
L'ultima frontiera scientifica non fa che confermarci il tutto. A noi trovare la consapevolezza e tutti gli strumenti pedagogici adeguati.


1 Dogana F., Suono e senso. Fondamenti teprici ed empirici del simbolismo fonetico, Franco Angeli, Milano, 1988
2 Marconi L., Musica espressione emozione, CLUEB, Bologna, 2001
3 Levitin D. J., Fatti di musica. La scienza di un’ossessione umana, Codice edizioni, Torino, 2008 disponibile online http://www.codiceedizioni.it/files/2010/07/978887578982.pdf
4 Goleman D., Intelligenza emotiva, RCS Libri, Milano, 1999-2011, p. 58. Quanto presagito nella prefazione all’edizione italiana (pp. 5 – 7) in tema di crisi sociale e malessere emozionale è andato nel tempo, purtroppo, progressivamente ampliandosi, anziché venir gestito.
5 Studi sull’Intelligenza Emotiva nelle Scuole, Six Seconds Italia, www.6seconds.it
6 Iovino A., Spaccazocchi M., Educare è altra cosa, FrancoAngeli, Milano 2015, p. 19
7 Goleman D., cit., p. 7

martedì 6 febbraio 2018

LA QUARTINA RITROVATA Cimarosa a Cantù: il racconto di un soggiorno fra musica, amore e una poesia completata


Ogni tanto a Cantù si torna a parlare di Domenico Cimarosa. L’occasione recente è la volontà di intitolare una nuova orchestra da camera cittadina al celebre compositore che fu a Cantù nell’autunno del 1784. L’omaggio mancava, se si pensa che il nome di Cantù spicca dentro le biografie passate e recenti cimarosiane di mezzo mondo, enciclopedie online comprese, ormai da un secolo e mezzo.
Cimarosa, a 35 anni famoso e acclamato, nell’ottobre 1784 era giunto a Milano per il debutto de “I due supposti conti” con in mano la scrittura del Regio di Torino per comporre e portare in scena il 26 dicembre un nuovo “Arteserse” su libretto di Metastasio. Francesco Antonio Pietrasanta, “principe” di Cantù ma soprattutto colonnello del Reggimento siciliano e figlio del Comandante supremo delle Milizie del Re di Napoli, lo aveva invitato a trascorrere una vacanza presso i suoi possedimenti canturini.
Un secolo dopo, a mettere in moto una memoria storica originale e ben ingegnata arriverà il rinvenimento della “Canzonetta buffa sulla partenza del maestro Cimarosa da Cantù”. Saluto spiritoso, ringraziamento e diario breve in soli versi tra lo scherzoso e il nostalgico, comprendente il riferimento a una possibile avventura sentimentale con la giovane allieva di canto canturina Antonia Mazzucchelli, la Canzonetta finì tra le mani del nuovo proprietario del Palazzo affacciato sulla Piazza di Cantù, Giuseppe Salterio, che la affidò al prestigioso archeologo Alfonso Garovaglio.
Fin qui, storicamente, nulla di nuovo. E’ assodato che lo storico canturino, ormai da anni domiciliato a Milano ma periodicamente di ritorno nella casa canturina a due passi dall’attuale Teatro San Teodoro, si fece tramite presso gli editori musicali Ricordi per la presentazione al pubblico del manoscritto nell’Esposizione Musicale milanese del 1881. Casa Ricordi scaltramente censurò una quartina della Canzonetta come palesemente “osée”, e cavalcò la notizia pubblicando una serie di articoli sulla sua Gazzetta Musicale di Milano e un volumetto “A proposito di Domenico Cimarosa e del suo soggiorno in Cantù”, a firma Pacifico Rattoni.
Tornata la Canzonetta sul fondo del suo baule o, molto più prosaicamente, nelle dotazioni di qualche archivio privato, in molti hanno dissertato per oltre cent’anni sul secolo dei lumi a Cantù e sulla biografia cimarosiana, trascurando completamente qualsiasi aspetto musicologico, a partire dalla possibilità dell’esistenza di una riga di musica legata alla Canzonetta o di possibili rapporti con l’Artaserse in via di completamento. Finché lo studio sistematico su Alfonso Garovaglio compiuto in anni recenti da ricercatori attenti come Maria Cristina Brunati non ha aperto un paio di spiragli curiosi che mettono in una luce diversa la posizione dello storico e archeologo in tutta la vicenda della Canzonetta. Dall’epistolario di Garovaglio sono uscite due lettere, una spedita da Cantù nel 1881 nella quale Giuseppe Salterio accompagna l’invio a Garovaglio della Canzonetta auspicando un riconoscimento d’autenticità in occasione dell’Esposizione, l’altra del marzo 1884 nella quale il conte Sola prega di “favorirgli i versi che il Ricordi ha giudicato di ommettere (sic)”.
Ma soprattutto, in maniera arcana almeno quanto il ritrovamento della Canzonetta, dal risvolto della copertina di un taccuino di Garovaglio conservato alla Civica Raccolta di Stampe Bertarelli di Milano, sono usciti due minuscoli quadernini di appunti, il secondo dei quali, al foglio 14, riporta con grafia curata la quartina epurata. “Tutto feci con piacere / Tu lo sai mia Mazzucchella / Ed intanto una casella / Mai volesti a me donar. / Dimmi un po’ se jo qui restassi / Mi daresti qualche cosa? / Ma che dici o Cimarosa / Tu cominci a delirar”. I versi ci fanno sorridere, compreso il doppio senso da preadolescente, ma restituiscono definitivamente l’atmosfera del tempo. Piuttosto: la musica? La metrica della Canzonetta e più d’un mezzo verso collimano con le arie del terzo atto di Artaserse, di cui oggi si può consultare on line il manoscritto conservato al Conservatorio napoletano di San Pietro a Majella (e mai pubblicato, a dire il bisogno di una “Cimarosa renaissance”).
L’idea del musicista napoletano che fa il verso a Metastasio, affacciato a guardare il sole che tramonta dietro il Monte Rosa canticchiando la  Canzonetta sulla melodia dell’aria di Arbace “Quanto è grave il mio tormento” appena composta, vale un concerto come quello che l’Orchestra Cimarosa di Cantù terrà stasera al San Teodoro. Con più di un nuovo dubbio nell’aria: quanto pesò il contributo di Alfonso Garovaglio in tutta la riscoperta? Quanto potrebbero la sua figura e quella della firma di Pacifico Rattoni coincidere? Ce n’è per parlarne, e a lungo ancora, sperando che Cantù, oggi così ricca di musica, faccia sempre più sua la figura del buon Cimarosa.