lunedì 23 dicembre 2013

domenica 20 ottobre 2013

il senso di "Va' pensiero...."

ecco quanto ho scritto per il flashmob promosso dall'Istituto Comprensivo di Mariano Comense il 12 ottobre 2013 nell'ambito delle manifestazioni promosse da AsLiCo Opera education per il bicentenario verdiano



“Va’ pensiero”, per una festa
A scuola, insegniamo ai ragazzi una cosa fondamentale: la musica ha un potere enorme, quello di influenzare la nostra mente, stimolare in noi sensazioni, scatenare in noi ogni possibile sentimento, emozione, stato d’animo.
Insegniamo anche che la musica è un linguaggio: con la musica un uomo, una donna, scelgono di condividere con gli altri un proprio pensiero, un’emozione, non tenendolo tutto per sé. Sperando che chi riceverà il suo messaggio sia disposto a prestare attenzione, ascoltare, conoscere e capire. Solo così si apprezza la musica; altrimenti la si ignora, o la si subisce.
C’è una terza cosa che non si dovrebbe mai dimenticare di insegnare: quella di non tradire il significato che l’autore della musica ha espresso nella sua creazione. Anche in questo caso, per evitare il rischio, bisogna conoscere, capire, accettare con apertura di mente.
Quando ascoltiamo o cantiamo il coro “Va’, pensiero” dal Nabucco di Giuseppe Verdi, la lentezza triste e addolorata della musica nelle sue parti estreme, la forza sofferta della parte centrale, dobbiamo sapere innanzitutto che “Va’ pensiero” è lo sfogo di un giovane uomo di trent’anni al quale il destino ha tolto tutti gli affetti in pochi mesi: un giovane uomo che, lontano da casa, perde per sempre in pochi mesi la moglie e due figli piccoli. Un uomo che aveva deciso di far morire dentro di sé con le emozioni anche la sua arte e il suo genio, finché la storia di una sofferenza altrettanto se non più grande, quella di un popolo assediato, sconfitto, ridotto in schiavitù e deportato, arriva a scuotere l’animo di Verdi convincendolo a ricominciare ad aprirsi agli altri con la sua musica. Non manca, certo, sullo sfondo, la consapevolezza da parte del musicista del mondo in cui viveva, della storia che si stava svolgendo – le oppressioni, la mancanza e il desiderio di un’identità non solo autonoma ma anche più grande – perché un artista non vive sulle nuvole ma sente e vive il suo tempo.
Noi oggi cantiamo qui il coro “Va’ pensiero” per ricordare, conoscere, capire, festeggiare. Ricordare che, oltre alle gravi sofferenze in gioventù, il destino ha dato a Giuseppe Verdi forza, coraggio, sensibilità e una vita molto lunga: con tutti questi ingredienti Verdi è diventato sì famoso e ammirato, ma ha soprattutto scelto di continuare a emozionare decine di storie (27, in tutto) con la grande espressività della sua musica. Una musica che, decine e decine di anni dopo (abbiamo festeggiato giovedì scorso i duecento anni dalla sua nascita) ha ancora tanto da dare e emozionare, purchè la si ascolti, canti e comprenda nel suo vero e più profondo significato.
 Per far ciò, come dice il musicologo Giovanni Mocchi, bisogna mettere in atto un “continuo atteggiamento di presa di posizione e dibattito collettivo, che nel lessico pedagogico si chiama analisi, sintesi, maturazione del giudizio critico. Non è forse questo il nostro compito di educatori nei confronti dei futuri cittadini?”. Questo ai grandi, agli insegnanti, ai genitori.
Ai bambini e ai ragazzi che si fanno grandi, invece, arriva l’invito a non fermarsi alle apparenze, ai discorsi facili e alle emozioni travolgenti, ma ad ascoltare, parlare, ragionare con gli altri. Qualche anno fa – trovate il video su Youtube – “Va’ pensiero” è stato cantato insieme da Zucchero e Pavarotti,  che hanno messo insieme modi diversi di far musica per confrontarsi, conoscersi, trovare un punto di incontro. “Va’ pensiero” è questo, il simbolo di chi veramente ha sofferto e cerca una nuova identità di pace. E’ un simbolo di apertura, non un di chiusura e di autodifesa: un’identità forte e aperta si confronta e cresce, non ha bisogno di arroccarsi quando pare vacillare.
 Nell’altro coro che “Opera domani” fa cantare ai bambini e ragazzi oggi nelle piazze d’Italia, il “Gloria all’Egitto” dall’opera “Aida”, si parla di un condottiero vittorioso che libera il suo popolo ma non è vendicativo: ottenuto il giusto, mostra alla sua gente il valore del perdono e del rispetto. Possiamo chiederci cosa diceva “Va’ pensiero” ai contemporanei di Verdi che credevano negli ideali del Risorgimento, quando Massimo d’Azeglio osservava: «Gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; […] pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro».
“Va’ pensiero” e la musica di Verdi sono ancora oggi un’occasione formidabile per la scuola e per la società per confrontarsi sulla società, sull’universo comunicativo, sulla storia e sul mondo. Così come un’occasione di emozionarsi, raccontare e condividere facendo festa come stiamo facendo oggi.

Vedi l'articolo di Roberta Busnelli sul quotidiano La Provincia di Como del 13 ottobre 2013 a
http://ww7.virtualnewspaper.it/provinciaspa/books/131013como/#/53/

venerdì 30 agosto 2013

terzo millennio e nebulizzazione musicale


Il terzo millennio è il tempo della nebulizzazione musicale. La globalizzazione e la diffusione fulminea del suono tecnologico dell’ultimo secolo precedente gli anni Duemila hanno reso disponibile e popolare l’intero patrimonio musicale umano, generando non necessariamente una propagazione di crescita ma, più spesso, una frammentazione; tutto e subito trovano spesso risposta comune in un ascolto breve, distratto a una proposta musicale nebulizzata. Escludendo gli appassionati o i patiti delle sempre più numerose nicchie iperspecializzate, chi ascolta si abbandona alla proposta imposta dai media, con un’autodifesa inconscia fatta di zapping perenne: modello lampante è quello dei preadolescenti che, con la frenesia propria dell’uso dei mezzi informatici, spizzicano le compilation memorizzate nei loro apparecchi senza raggiungere mai l’ascolto intero di un brano da 3 minuti. Va da sé che i preadolescenti del momento saranno adulti nel giro di un decennio: come non chiedersi che tipo di ascoltatore musicale sarà l’adulto europeo degli anni 2020?

La domanda riverbera immediatamente sul mondo della scuola, della formazione musicale fino al livello professionale, per arrivare a quello occupazionale del musicista. Tanto per citare cosa italiane, Filippo Michelangeli nell’editoriale del mensile Suonare di settembre 2013 interviene nella polemica estiva seguite all’esternazione del pianista ridens Giovanni Allevi (“Credo che in Beethoven manchi il ritmo”) rimproverando al mondo accademico di saper rispondere ad ovvietà con altrettanta ovvietà unita all’ipocrisia di una parte del modo della “classica”. Mentre scrivo, a proposito di pianisti (grandi), l’anima bella di Glenn Gould mi sorride sorniona con il suono del “suo” Bach: intanto, il mondo dell'istruzione e formazione musicale italiano sembra anestetizzato e disperso.

Che fare, in questa nebulizzazione? L’avvenire è perdersi nella nebbia? Lasciare che tutto vada come deve andare, affidando al destino che lo stillicido sonoro (diffuso da qualcuno, comunque: chi? perché? con quale scopo? La musica è anche questo) possa fertilizzare l’humus che sta in ciascuno o far semplicemente venire i reumatismi, a seconda del caso? Oppure ci sono margini per un’ecologia della musica anche nei confronti di questa condizione, creando occasioni di presa di consapevolezza, riflessione, approfondimento, scelta cosciente?

venerdì 23 agosto 2013

sogno musicale di fine estate


Un’altra estate sta finendo, anche in musica. Le città si sono comunque svuotate abbastanza; i luoghi del turismo, del riposo o dell’evasione hanno portato il riverbero dei cambiamenti del terzo lustro di terzo millennio. La nebulizzazione di generi, stili, luoghi e proposte è nell’aria come i suoni che la riguardano. Lontane le eco dei grandi festival musicali europei capaci di resistere al mutare vertiginoso dei tempi (Salisburgo, Lucerna, Stresa: non più Como e il suo Autunno Musicale, le cui scelte spesso profetiche dovrebbero rodere nella coscienza culturale lariana) l’estate 2013 ha, in realtà,  pulsato di proposte musicali, con quella polverizzazione che fa il nostro tempo. Dalle rassegne diffuse ai più piccoli cicli di concerti classici, a certa Italia dei territori che riscopre, rivisitandole talvolta molto intelligentemente, radici e tradizioni, alle mille incursioni di genere pop fra revival sempre più allungati fino alla galassia sterminata dei nuovi stili giovanili,  le proposte di musica dal vivo non sono proprio mancate.

In tutto ciò, ad ogni anno che passa, spizzicando  proposte classiche grandi e piccole qui e là per l’Italia, mi viene sempre più da chiedere: ha senso, intorno agli anni 2015, il concerto classico tradizionale, in quanto formula di comunicazione artistica? Il problema, non certo nuovo, è stato sollevato a fine secolo scorso da osservatori attenti; si cerca attentamente di evitarlo, quando piazze e luoghi d’arte si riempiono di gente così come quando una chiesa o un angolo suggestivo rimangono desolatamente disertati. Quanto è sensato e significativo per un musicista che propone generi diversi dal pop o dalle suggestioni etniche dover rinnovare la sua arte forzatamente nella formula di un’esecuzione elencata ad un gruppo di si spera silenti e attenti ascoltatori secondo quei canoni ottocenteschi dai quali ci separano ormai due secoli di storia e almeno tre o quattro rivoluzioni socioculturali epocali?

Se è vero che, nella comunicazione, conta ciò che il comunicatore trasmette ma anche il sentito del potenziale ricevente, credo sia definitivamente ineludibile considerare le aspettative degli ascoltatori, se si vuole evitare che nella nebulizzazione del mondo contemporaneo ad evaporare siano generi e contenuti di valore indiscutibile per colpa della forma della proposta comunicativa. Tutto ciò proprio quando platee sempre più ampie e variegate lasciano trasparire che c’è voglia e interesse ad emozionarsi, capire, vivere l’arte in modo forte ma coinvolgente, sapientemente diverso.

Citavo, all’inizio, l’Autunno Musicale a Como. Quanto intuitiva e profetica fu, oltre vent’anni fa, l’idea di coniugare il significato musicale che si andava a proporre con il luogo storico e artistico, la possibilità di fruire e comprendere in modo cinestesico, di quell’immersione multisensoriale del fatto artistico che fa il mondo d’oggi e verso cui non è certo un dramma o una remissione al dogma di Musica Assoluta rivolgersi.

Tutto ciò mette sicuramente in crisi il musicista tradizionale o convenzionale, cresciuto all’ombra della mentalità individualistico conservatoriale: non il vero creativo, disposto ad allargare la propria competenza d’arte verso aperture (di pensiero, cultura, genere e forma espressiva) capaci di rinnovare il dato comunicativo. Sarà quest’ultimo a far circolare l’aria un po’ stantia che anche l’appasionato più incallito di musica classica comincia a sentire, ad attrarre i giovani e nuovo pubblico, ad emozionare, incuriosire, acculturare, permettere di comprendere, soddisfare l’ascoltatore del 2015.

lunedì 1 luglio 2013

2013: Verdi, Wagner e Como

Verdi, Wagner, Como: un triangolo inaspettatamente ricco.
Ecco un primo aggiornamento di occasioni e ricorrenze in riva al Lario nel bicentenario della nascita dei due grandi coetanei dell'opera dell'800.


quando wagner venne in gita a Como

http://ww7.virtualnewspaper.it/provinciaspa/books/130331como/#/55/



“Partii per Como in una meravigliosa giornata di primavera, e vi trovai la più lussureggiante fioritura”.
Le poche parole, che lasciano aperta l’immaginazione a un passaggio di sfuggita come, forse, a una sosta appena prolungata nel capoluogo lariano, sono di Richard Wagner. La primavera è quella del 1859: il profeta dell’Opera d’arte totale, del quale quest’anno ricordiamo il bicentenario della nascita insieme a Giuseppe Verdi, sta lasciando con una certa fretta Venezia, dove ha vissuto sette mesi lavorando al secondo atto di “Tristano e Isotta”. I venti di guerra di quella che, di lì a un mese, sarebbe stata la Seconda guerra d’indipendenza, hanno spento nell’animo del compositore la sensazione della laguna come luogo sereno dove vivere e lavorare.
“Dove avrei composto il terzo atto? Volevo in ogni caso cominciarlo solamente in un posto dove avessi anche probabilità di terminarlo indisturbato, e a Venezia questo non pareva il caso”, si legge ne “La mia vita” poco prima di trovar nominato Como: la scelta cade su quella Svizzera che lo ha ospitato fin dall’inizio degli anni ’50.
Affidato il grosso dei bagagli al trasporto con il quale avrebbe valicato le Alpi il suo pianoforte Erard, Wagner viaggia usando la strada più celere e diretta del momento, quella ferrata. All’andata, scendendo da Zurigo attraverso il Sempione, il compositore non si era fatto mancare una sosta nell’amato giardino a terrazze dell’Isola Bella, in un “meraviglioso pomeriggio di tarda estate”; il Verbano è per lui simbolo caro dell’accesso in Italia. Se, in quel caso, il mezzo del treno s’era imposto solo da Milano a Venezia, in questo ritorno volutamente più risoluto il treno gli si offre come occasione più sicura e spedita, giungendo la ferrovia fin quasi al confine con il territorio elvetico.
Wagner può perfino concedersi tre giorni di visita a Milano – che aveva rimpianto di non visitare all’andata - a partire dal 24 marzo. Insieme alla visita al Cenacolo di Leonardo, al Duomo fin sulle guglie e a una serata di commedia goldoniana nel popolare Teatro Re (in pieno centro, più o meno dove oggi è via Pellico), Wagner decide di assistere a una prima alla Scala: scelta che vale il giudizio di “una prova di grande degenerazione del gusto artistico italiano”. Chissà se il commento sarebbe stato altrettanto netto in presenza di qualcosa di diverso dal “Duca di Scilla” di Errico Petrella...
Passate le ultime ore milanesi, possiamo finalmente immaginarci Wagner affacciato al finestrino del treno che corre in un’ora e mezza, attraverso Monza, verso il capolinea della Ca’ Merlata, contemplando campi e filari di gelsi della Brianza, le colline sempre più vicine, il profilo limpido delle Alpi a far da sfondo; la locomotiva che, sbuffando, termina la sua corsa in fondo a quella che oggi è la via Scalabrini, di fronte al crocevia dove si uniscono la via Varesina, la Milanese e la Canturina; gli sguardi dubbiosi dei soldati austriaci che, ancora una volta, scrutano il passaporto elvetico che protegge Wagner dall’ordine  di espulsione dai territori italici emesso dai ministri sassoni; il musicista che alza lo sguardo verso la sommità della parete collinare che sta di fronte, osserva la torre del castello dominato secoli prima dal Barbarossa (sulla vita del quale dieci anni prima aveva scritto un libretto) e il masso liscio incombente sotto ciò che resta del maniero, sufficientemente degno a ricordare Kareol, il castello di Tristano.
Tutto attorno, inaspettata alla vista, è una di quelle fioriture di inizio primavera che, con le prime giornate veramente limpide e soleggiate di fine marzo, fanno biancheggiare ancor oggi tutte le pareti dei colli, non ancora verdeggianti, che scendono verso la convalle. Tre volte a settimana, da Camerlata, partiva la diligenza diretta a Flüelen, passando per il Gottardo: a noi piace pensare che un contrattempo possa aver costretto Wagner a fermarsi a Como una notte. Vederlo percorrere le mura esterne della città, da Porta Torre; entrare in città dal Portello su quella che allora era Piazza Castello, guardando con sentimenti alterni la facciata neoclassica del “teatro all’italiana” suo coetaneo; sfiorare la facciata quattrocentesca della Cattedrale,  fino ad affacciarsi sul Porto di Como. Magari per cercare alloggio nelle stesse stanze dove, poco più di vent’anni prima, era nata da Marie Catherine d'Agoult la figlia dell’amico Franz Liszt, Cosima. La ragazza, allora, faceva coppia con il giovane direttore d’orchestra Hans von Bülow, che di anni ne aveva sei o sette più di lei. Sapendolo cresciuto a Dresda, come lui, Wagner lo aveva introdotto nell’ambiente musicale di Zurigo: lì si erano salutati tutti e tre, alla metà d’agosto dell’anno precedente, poco prima della partenza di Wagner per Venezia, Hans in lacrime, Cosima in un silenzio misterioso, cupo e affascinante.
Dell’avventura di Liszt sul Lago di Como, risalente al 1837, Wagner avrebbe potuto aver letto già nei suoi “anni di galera” a Parigi: la Revue Musicale de Paris aveva allora riportato con puntualità corrispondenze di Liszt da Como, nelle quali la viscontessa d’Agoult in dolce attesa di Cosima – che ancora non si firmava, à la mode, Daniel Stern – metteva ogni tanto lo zampino. Erano critiche non tenere verso Milano, l’ambiente della Scala, i vizi dell’opera e del pubblico italico. Le stesse che Wagner, purtroppo, ribadisce. Le rivoluzioni covavano, Liszt suonava nei salotti le sue mirabolanti variazioni sul “Suoni la tromba, e intrepido” belliniano e Wagner fantasticava fra storia e leggenda mettendo la musica alle vicende di Cola di Rienzo per volare con il suo Fliegende Holländer.
Nella luminosa giornata primaverile di fine marzo del 1859, è un altro Wagner a lasciare un briciolo di cuore  alla lussureggiante fioritura che punteggia le sponde del primo bacino del Lago di Como, che va ad aggiungersi all’attaccamento per il Lago Maggiore e i laghi alpini in generale, in riva ai quali tornerà lungo tutta la sua vita. Dall’attrazione verso la natura, l’animo del musicista è ormai esaltato verso i confini supremi del mito; non solo ha già preso forma compiuta la “Tetralogia” -“Rheingold”, Walküre” sono ben più che delineati -  ora è la passione, il dramma di Tristano che esige di essere portato a compimento.
Il fatto che Como sia luogo tutto fuorché sicuro (alla Battaglia di San Fermo mancano due mesi giusti) e l’ansia di musicare l’ultimo atto di “Tristan und Isolde” fra le amate montagne elvetiche portano via Wagner in fretta dai rigogliosi fiori lariani. Superato il Gottardo fra due mura di neve, dal freddo spiacevole di una piovosa Lucerna – la sua Delo – l’autore di “Tristano e Isotta” tornerà con il pensiero più d’una volta alla ricca primavera comasca.
Stefano Lamon

verdi e wagner, vite parallele sui laghi lombardi




recensione Verdi a Cernobbio

 
R I G O L E T T O

TRIO RENAISSANCE
conduce la serata il Dottor Paolo Zoppi
Falstaff del “Club dei 27” di Parma
Grand Hotel Villa D'Este - Cernobbio -
Sala Regina - Domenica 9 Giugno 2013





Giuseppe Verdi è tornato là dove Giulio Ricordi lo ospitava, in riva al Lario. La Sala Regina del Grand hotel Villa d’Este era affollata come sempre agli appuntamenti degli Amici della Musica di Cernobbio, domenica sera. L’ennesimo acquazzone nell’anno mondiale dedicato all’acqua non ha scoraggiato gli appassionati, intenzionati ad incontrare nei panni del Cigno di Busseto il Falstaff del Club dei 27 di Parma ovvero Paolo Zoppi. Il presidente dell’originale sodalizio di Parma ha introdotto l’”opera per tre” Rigoletto eseguita nella versione per violino, violoncello e pianoforte di Viktor Derevianko dallo stesso alla tastiera con Mihaela Costea al violino e Diana Cahanescu al violoncello, prime parti dell’Orchestra della Fondazione Toscanini di Parma. Il Trio Renaissance – questo il nome specifico della formazione – ha avvinto gli ascoltatori in quasi due ore di musica con la trascrizione del capolavoro verdiano della Trilogia popolare: una rielaborazione efficace, curata nel portare in evidenza attraverso estensione e timbrica dei tre strumenti ogni valenza espressiva della musica di Verdi non senza richieste virtuosistiche per ciascuno dei tre esecutori. Lungi dall’essere superata o dimenticata, quando è ben fatta – e di ciò gli Amici della Musica di Cernobbio non mancano di fornire il proprio numeroso pubblico – la forma della trascrizione continua ad emozionare, mantenendosi ottimo veicolo comunicativo. Come Paolo Zoppi ha fatto dire a Verdi, “dallo strumento si possa cavar fuori i sentimenti dei personaggi” è qualcosa che non dobbiamo perdere. Merito agli esecutori, che si sono dati un robusto impegno sostenuto con perizia e passione in un lavoro fresco d’inchiostro: sui leggii erano le parti ancora manoscritte per quella che di fatto, a Cernobbio, è stata la “seconda” dopo il debutto parmense di qualche settimana fa. L’evento nei luoghi di visita verdiana è stato filmato dal regista Gianpaolo Bigoli; da ammirare anche le statue lignee di Gilda e Rigoletto realizzate dallo scultore parmense Blét, al secolo Luciano Belletti.
Stefano Lamon

lunedì 8 aprile 2013

neuroscienze e colabrodi

“Lo sviluppo del cervello migliora se da bambini si studia musica”
di P.A.http://www.tecnicadellascuola.it/index.php?id=44817&action=view
08/04/2013

"A sostenerlo è la Concordia University di Montreal, per la quale studiare musica da bambini aiuterebbe a migliorare lo sviluppo del cervello, favorendo l’acquisizione di maggiori abilità motorie
I risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of Neuroscience e ha coinvolto 36 musicisti adulti, metà dei quali avevano iniziato a studiare musica e strumento musicale prima di compiere otto anni e l’altra metà più tardi, ma sempre con lo stesso numero di anni dedicati. Ebbene, coloro che avevano cominciato prima avevano sviluppato un numero più alto di connessioni cerebrali, un cervello più sviluppato, con un quantitativo maggiore di sostanza bianca (e quindi di fibre nervose) nel corpo calloso, che connette i due emisferi cerebrali, con conseguente miglioramento delle attività motorie.
[...] “evidentemente lo sviluppo cerebrale viene potenziato se e solo se si comincia presto”.
Sarebbe stato quindi confermato che il momento propizio per avvicinarsi allo studio della musica sarebbe compreso fra i sei e gli otto anni, considerando che i bambini sarebbe in grado di migliorarne il normale sviluppo cerebrale. 


 Le neuroscienze ci confermano ancora una volta ciò che sapevamo. Il punto della riflessione, però, non è questo.
La pedagogia musicale italiana dice di essere convinta dell'importanza del cominciar presto e con i giusto metodi da decenni. Poi, all'atto pratico, nella Scuola Primaria la maggioranza delle docenti continua a dire di non avere le competenze adatte ad insegnar musica; i docenti specialisti dei Corsi ad indirizzo musicale di Scuola Secondaria di I grado difficilmente si impegnano a "sintonizzarsi" con la fascia d'eta precedente attraverso progetti o interventi veramente idonei e mirati (leggi: non la lezione di strumento all'incirca adattata, e ciò non in tempi di mancanza di risorse come i recentiori, bensì prima e molto prima); i docenti di Conservatorio continuano a ritenersi i depositari unici del verbo didattico musicale a suon di creazione di fututi veri musicisti virtuosi (sempre che il loro orario di cattedra avanzi le ore tali da dedicare qualche oretta di Preaccademico o Vetero Ordinamento).
Niente di più e diverso di quanto iniziato a ragionare nel post di gennaio. Con magari, in più, crescenti dubbi dopo un anno nel quale il procrastinare della contrattazione del FIS ha fatto scricchiolare progetti e subentrare con una velocità stratosferica vecchie pigrizie, status quo ante, chiusura in orticelli didattici tradizionali. Certo, le belle e grandi esperienze non mancano, ma troppo spesso restano lì, non entrano in rete, non diventano occasione di scambio, aggiornamento, stimolo e formazione per altri. E siamo ai ragionamenti su aggiornamento e formazione.
Perchè la scuola italiana deve rimanere incessantemente un colabrodo?

martedì 26 marzo 2013

ricordi d'infanzia...

...quando nonna mi ci portava spesso
(Cantù, 22 marzo 2013, treno storico)
(peccato non ci fosse una 740!)






giovedì 7 marzo 2013

l'asino e lo zucchero

"L'è cumè dà ul zucur a' l'asen", citava - riprendendo la saggezza popolare - mia nonna lombarda. Dare lo zucchero all'asino, con relativa mancanza di riconoscenza e rischio aggiuntivo di ricevere comunque un sonoro calcio, mi risuona in mente quasi quotidianamente, nella mia esperienza di insegnante.
Alunni esagitati, deconcentrati e insensibili agli stimoli più diversi e variegati; famiglie arroganti, sorde per principio, piene di preconcetti, assolutamente autoreferenziali, pretenziose all'inverosimile, poco o nulla disponibili a confrontarsi e a condividere si moltiplicano. Il tempo in cui chi era semplice si fidava e concedeva una dose di rispetto legittima è ogni giorno più lontano.
Sicuramente il mondo della scuola ha prestato il fianco a critiche con alcune leggerezze e mancanze; rimane il fatto che il modello di vita dominante da un paio di decenni, fatto di prepotenti sicumere e illusorie onnipotenze, restituisce arroganza, mancanza di rispetto, pretenziosità che non conoscono limiti nè frontiere. Con il risultato che ogni atto di disponibilità e servizio fiene snobbato, frainteso, sottovalutato sotto badilate di ignoranza ricoperte di arroganza, prepotenza, pretese illimitate e impossibili.
Di oggi: "mi dovete saper dare l'orario dell'indirizzo musicale a marzo dell'anno precedente perchè io sono già fortunato che lavoro, devo potermi organizzare con tutte i mille impegni di mio figlio, altrimenti non ve lo iscrivo, tanto voi fate le scelte secondo i vostri comodi e interessi e non secondo le mie esigenze".