venerdì 30 agosto 2013

terzo millennio e nebulizzazione musicale


Il terzo millennio è il tempo della nebulizzazione musicale. La globalizzazione e la diffusione fulminea del suono tecnologico dell’ultimo secolo precedente gli anni Duemila hanno reso disponibile e popolare l’intero patrimonio musicale umano, generando non necessariamente una propagazione di crescita ma, più spesso, una frammentazione; tutto e subito trovano spesso risposta comune in un ascolto breve, distratto a una proposta musicale nebulizzata. Escludendo gli appassionati o i patiti delle sempre più numerose nicchie iperspecializzate, chi ascolta si abbandona alla proposta imposta dai media, con un’autodifesa inconscia fatta di zapping perenne: modello lampante è quello dei preadolescenti che, con la frenesia propria dell’uso dei mezzi informatici, spizzicano le compilation memorizzate nei loro apparecchi senza raggiungere mai l’ascolto intero di un brano da 3 minuti. Va da sé che i preadolescenti del momento saranno adulti nel giro di un decennio: come non chiedersi che tipo di ascoltatore musicale sarà l’adulto europeo degli anni 2020?

La domanda riverbera immediatamente sul mondo della scuola, della formazione musicale fino al livello professionale, per arrivare a quello occupazionale del musicista. Tanto per citare cosa italiane, Filippo Michelangeli nell’editoriale del mensile Suonare di settembre 2013 interviene nella polemica estiva seguite all’esternazione del pianista ridens Giovanni Allevi (“Credo che in Beethoven manchi il ritmo”) rimproverando al mondo accademico di saper rispondere ad ovvietà con altrettanta ovvietà unita all’ipocrisia di una parte del modo della “classica”. Mentre scrivo, a proposito di pianisti (grandi), l’anima bella di Glenn Gould mi sorride sorniona con il suono del “suo” Bach: intanto, il mondo dell'istruzione e formazione musicale italiano sembra anestetizzato e disperso.

Che fare, in questa nebulizzazione? L’avvenire è perdersi nella nebbia? Lasciare che tutto vada come deve andare, affidando al destino che lo stillicido sonoro (diffuso da qualcuno, comunque: chi? perché? con quale scopo? La musica è anche questo) possa fertilizzare l’humus che sta in ciascuno o far semplicemente venire i reumatismi, a seconda del caso? Oppure ci sono margini per un’ecologia della musica anche nei confronti di questa condizione, creando occasioni di presa di consapevolezza, riflessione, approfondimento, scelta cosciente?

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