sogno musicale di fine estate
Un’altra estate sta finendo, anche
in musica. Le città si sono comunque svuotate abbastanza; i luoghi del turismo,
del riposo o dell’evasione hanno portato il riverbero dei cambiamenti del terzo
lustro di terzo millennio. La nebulizzazione di generi, stili, luoghi e
proposte è nell’aria come i suoni che la riguardano. Lontane le eco dei grandi
festival musicali europei capaci di resistere al mutare vertiginoso dei tempi
(Salisburgo, Lucerna, Stresa: non più Como e il suo Autunno Musicale, le cui
scelte spesso profetiche dovrebbero rodere nella coscienza culturale lariana) l’estate
2013 ha, in realtà, pulsato di proposte
musicali, con quella polverizzazione che fa il nostro tempo. Dalle rassegne
diffuse ai più piccoli cicli di concerti classici, a certa Italia dei territori
che riscopre, rivisitandole talvolta molto intelligentemente, radici e
tradizioni, alle mille incursioni di genere pop fra revival sempre più allungati fino alla galassia sterminata
dei nuovi stili giovanili, le proposte
di musica dal vivo non sono proprio mancate.
In tutto ciò, ad ogni anno che
passa, spizzicando proposte classiche grandi e piccole qui e là per l’Italia, mi viene
sempre più da chiedere: ha senso, intorno agli anni 2015, il concerto classico
tradizionale, in quanto formula
di comunicazione artistica? Il problema, non certo nuovo, è stato sollevato a
fine secolo scorso da osservatori attenti; si cerca attentamente di evitarlo,
quando piazze e luoghi d’arte si riempiono di gente così come quando una chiesa
o un angolo suggestivo rimangono desolatamente disertati. Quanto è sensato e
significativo per un musicista che propone generi diversi dal pop o dalle
suggestioni etniche dover rinnovare la sua arte forzatamente nella formula di
un’esecuzione elencata ad un gruppo di si spera silenti e attenti ascoltatori
secondo quei canoni ottocenteschi dai quali ci separano ormai due secoli di
storia e almeno tre o quattro rivoluzioni socioculturali epocali?
Se è vero che, nella comunicazione, conta ciò che il
comunicatore trasmette ma anche il sentito
del potenziale ricevente, credo sia definitivamente ineludibile considerare le
aspettative degli ascoltatori, se si vuole evitare che nella nebulizzazione del
mondo contemporaneo ad evaporare siano generi e contenuti di valore
indiscutibile per colpa della forma
della proposta comunicativa. Tutto ciò proprio quando platee sempre più ampie e
variegate lasciano trasparire che c’è voglia e interesse ad emozionarsi,
capire, vivere l’arte in modo forte ma coinvolgente, sapientemente diverso.
Citavo, all’inizio, l’Autunno Musicale a Como. Quanto
intuitiva e profetica fu, oltre vent’anni fa, l’idea di coniugare il
significato musicale che si andava a proporre con il luogo storico e artistico,
la possibilità di fruire e comprendere in modo cinestesico, di quell’immersione
multisensoriale del fatto artistico che fa il mondo d’oggi e verso cui non è
certo un dramma o una remissione al dogma di Musica Assoluta rivolgersi.
Tutto ciò mette sicuramente in crisi il musicista tradizionale o convenzionale, cresciuto all’ombra
della mentalità individualistico conservatoriale: non il vero creativo,
disposto ad allargare la propria competenza d’arte verso aperture (di pensiero,
cultura, genere e forma espressiva) capaci di rinnovare il dato comunicativo. Sarà
quest’ultimo a far circolare l’aria un po’ stantia che anche l’appasionato più
incallito di musica classica comincia a sentire, ad attrarre i giovani e nuovo
pubblico, ad emozionare, incuriosire, acculturare, permettere di comprendere,
soddisfare l’ascoltatore del 2015.
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