Speranze, attese e disillusioni dei musicisti millennials. Una risposta

Il  Post di Silvia Concas in rete mi tocca. Ecco una risposta.


Cara Silvia,

sai che ti leggo sempre con interesse: ho quindi apprezzato anche questa tua metafora del costruire. Che ben esprime il tuo sentire ma rispecchia un problema sociologico della professione musicale di quest’ultimo (primo?) quarto di secolo. Ti risponde – mi conosci – un simpatico sessantaduenne che a far data dal prossimo 1 settembre sarà ufficialmente pensionato: mgari io non rientro nella casistica che tu hai citato, ma ecco che viene a galla il problema, per continuare la metafora, sul tipo di casa, casetta, villa presidenziale che ciascuno di noi ha costruito a suo pro e/o a detrimento altrui.

La mia generazione vi consegna una società più complessa, è vero. E’ altrettanto vero che il modello sociale e professionale cui siete stati cresciuti, soprattutto in ambito musicale, è diverso dal mio in una forma che io considero regressiva, revanscista in senso lato.


Mi devi qui una non breve premessa storica. Molti come me, figli spirituali di Carlo Delfrati o Gino Stefani, hanno dedicato la parte fondante della propria attività professionale musicale all’ambito divulgativo, insegnando ma anche coltivando una possibilità di diffusione capillare del sapere e della cultura che fosse “per tutti” a vari gradi, portata nei territori, vivendo un quotidiano che non era in quanto tale di minor livello o svilente, anzi che si poneva l’obiettivo di “alzare il livello” in modo qualificato, diffusivo, alternativo se non quanto meno complementare alla cultura di massa semplicistica dei media e dei poteri forti.

Ho completato gli studi e iniziato a insegnare in un’epoca in cui i Conservatori erano di meno, si partiva dalla provincia a fare gli esami da privatista, aggiornandosi furiosamente tramite riviste e corsi estivi SIEM, mentre sul territorio c’erano ancora retaggi tardo ottocenteschi con le bande che iniziavano gli studi con sei mesi di solfeggio a suon di Bona, le insegnanti di pianoforte di stampo ottocentesco il cui sillabo era Beyer-TartinadiBurro-LacdeCome, la convinzione che se avevi fatto Teoria e Solfeggio eri qualcuno e potevi insegnare. Chi della mia generazione ha voluto, mediando studi tradizionali e caccia grossa all’aggiornamento, si è fatto testimone sul territorio di un cambiamento importante: oggi la didattica pubblica e libera non è più la stessa, si sono diffuse metodologie innovative, si sono organizzati cicli di concerti decentrati anche nei centri minori dando opportunità a molti di far musica. Se faccio un bilancio della mia attività professionale fin qui, non mi posso dire insoddisfatto: ho insegnato, ho organizzato concerti, ho suonato e fatto coralità con dignità, ho divulgato parlando e scrivendo di musica. Come me, mille altri hanno avuto la possibilità di farlo, nella consapevolezza che la professionalità avrebbe dato frutto se spesa a livello diffusivo, non verticale ma piramidale: portare centomila bambini all’opera per tener viva l’opera, organizzare concerti a scuola per creare un potenziale pubblico del futuro.

Certo, andava parallelamente riformato in modo istituzionale il sistema di formazione. E qui viene quella che io chiamo deriva regressiva.

A fine secolo scorso, quest’ideale piramidale e sociale - peraltro non in crisi ma soggetto a quelle stanchezze che ogni ciclo subisce – ha incontrato la svolta individualistica della società sempre più liquida di inizio nuovo millennio. Che, in ambito musicale, ha significato far rientrare dalla finestra dei Conservatori (oh, quale nome più adatto! Conservare, parrucconare…), se mai ne fosse mai uscita, la mentalità del “questo è il luogo delle eccellenze/qui si diventa grandi concertisti/tu sarai un grande artista” dove la coltivazione dell’ego obeso andava di pari passo con una sciagurata ipertrofia nel numero del Conservatori stessi e dei relativi potenziali grandi artisti diplomati – pardon, laureati – in costante spregio della cura della base della piramide, che fosse destinata alla crescita di potenziali nuove leve di artisti ma che, massimamente, fosse destinata alla formazione di divulgatori di indiscussa professionalità che portassero laboriosamente e dignitosamente in modo diffuso la cultura musicale a tutti. Perchè il buon professionista musicista del nuovo millennio in Europa non è il singolo che per forza vince il concorso in una delle ahimè sempre meno orchestre o per forza canta alla Scala mentre il pubblico viene ingozzato di pseudo musica sempre più basica e “lo spazio straripi di musica a tutto volume che esplode da un vibrante apparecchio uccidi-silenzio” (Calvino, 1979), ma è l’attivo nodo di una rete che, degnandosi di operare anche dalla base della piramide, si attiva per vivificare le maglie in modo sempre più stretto e costante.

Potrai dire che non è facile, lo so. Ti potrei dire che non era facile nemmeno quarant’anni fa e posso riconoscere che ripartire, oggi, può sembrare altrettanto se non più complesso (lo vedo come genitore). Anche se, dal mio punto di vista, la sola ricchezza di sistemi tecnologici e di comunicazione a supporto mi fa impallidire, in confronto. Mi potrai dire, con Gaber, che “La mia generazione ha perso”: però, fino a un certo punto, credo di poter dire che il suo pezzetto lo abbia fatto. Tocca a voi oggi rifare la rivoluzione, in tempi e modi necessariamente diversi. Con l’inizio di settembre, a sessantadue anni d’età, io passo il testimone, in ambito scolastico. Magari, qualche sessantenne in pensione che dà una mano a rafforzare le mura di casa tua, con la sua esperienza, lo trovi ancora. Ti dedico il primo brano dell’album di Gaber che ti ho citato, s’intitola “Si può”.

Con affetto.



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